venerdì 4 dicembre 2020

SAN GIOVANNI DELLA CROCE E IL PENSIERO INDIANO

Ci sono molti modi di essere santi anche se tutti sono accomunati dal desiderio bruciante di seguire Dio con tutte le loro forze. La santità è un fiume che ha tanti affluenti. Alcuni santi sono più popolari di altri per ragioni storiche o devozionali che possono anche sfuggire ad una comprensione immediata. 

Pensiamo a sant’Antonio da Padova, san Pio da Pietrelcina, santa Rita da Cascia e via dicendo. Altri, malgrado la loro evidente grandezza, sono forse meno presenti nella devozione popolare, come quel carmelitano spagnolo che la Chiesa festeggia il 14 dicembre, San Giovanni della Croce (1540-1591). Fu insieme a santa Teresa d’Avila, altra grande carmelitana spagnola, uno dei riformatori dell’ordine carmelitano. Per la profondità dei suoi scritti mistici e poetici verrà anche dichiarato Dottore della Chiesa.

Nell’immaginario collettivo la grandezza di un uomo viene misurata e ammirata non solo per come ha saputo vivere la propria avventura umana, ma anche per il modo in cui ha affrontato le ore del supremo transito dagli affanni della vita mortale “all’altra riva” quella di Dio. Il momento della propria morte: quello delle scelte definitive, cioè della “crisi” finale, che fa paura a tutti. Giovanni della Croce sul letto di morte, ai suoi confratelli che gli leggevano le preghiere dei moribondi, chiese qualcosa di più “allegro”: domandò espressamente qualche versetto del Cantico dei Cantici, un bellissimo e travolgente poema d’amore dell’Antico Testamento (che lui ben conosceva). Non andava forse incontro all’Amore? Allora ci voleva qualcosa di più appropriato. Dopo la lettura Giovanni finì il cammino terreno pregando le parole “Nelle tue mani, Signore, affido, il mio spirito”. Cioè nelle mani di Dio Amore, per il quale era vissuto, aveva lavorato e sofferto, per quel Dio che lui aveva amato, predicato e cantato. Ecco che cosa era la morte per lui: un “dolce incontro” con Dio Amore. Aveva 49 anni tutti spesi per Dio.

Il dottore mistico, così lo chiama San Giovanni Paolo II in un omelia tenuta nel 1982,
insegna che nella fede è anche necessario privarsi delle creature, sia di quelle che si percepiscono per mezzo dei sensi, che di quelle che si raggiungono con l’intelletto, per unirsi in una maniera conoscitiva con lo stesso Dio. Questa via che conduce all’unione, passa attraverso la “notte oscura” della fede.
La notte oscura, questo concetto che, dopo Giovanni della Croce, ha attraversato la vita di tanti cristiani.

Ho letto un libro dal titolo "Pensiero indiano e mistica carmelitana" di Svāmi Siddheśvarānanda, consigliatomi come bibliografia della Collana Crocevia, da Marco Guzzi, dove viene messa in relazione la mistica carmelitana di San Giovanni della Croce con quella indiana. Ho trovato molto interessante e compreso bene come due religioni così distanti tra loro abbiano molti fondamenti in comune, uno tra questi quello della "notte oscura"
In senso lato il concetto di ascesi, e di sādhanā si equivalgono, in quanto contengono la stessa idea : quella della vita spirituale o meglio della maniera di praticarla.
L' autore del libro, molto conosciuto in India e in Europa, dove ha lavorato per presentare la dottrina Vedanta, mostra questa intima relazione tra la religione cristiana e la spiritualità indù sul piano mistico e come queste si incontrino perfettamente nel descrivere le qualificazioni necessarie per la realizzazione del Sentiero.
Nella serie di incontri che l' autore ha intrapreso negli anni '50 e '60 ha sottolineato le trasformazioni necessarie per l'uomo interiore.
Tra questi studi si ricorda in particolare quello comparativo tra la Notte Oscura di San Giovanni della Croce e l' Astānga Yoga di Patanjali.
Nel libro sono riportati oltre che molti passi tratti dalla Salita del Monte Carmelo e dalla Notte Oscura raffrontati con quelli della Bhagavad-gîtā e delle Upanişad, viene data anche la chiave, sia al cristiano che all' indù, per un giusto accostamento a concezioni diverse dalle proprie.

L' accostamento consiste nell'adottare momentaneamente la visione dell'altro, di vedere come l'altro vede, dimenticando l' adesione ad una particolare dottrina. Ciò non è uno sterile sincretismo né un eclettismo, ma un saper cogliere nelle varie Scritture elementi essenziali che si completino l'un l' altro.





2 commenti:

  1. Interessante questo accostamento tra due "Sapienze" che sanno andare alla profonda radice dell' essere umano... Il consiglio finale, poi, offre lo spunto per poter ri-scoprire l' utilità di un esercizio di "intelligenza" dell' umano, consistente nel cercare di cogliere in ognuno che ci è vicino (o incrociamo nella nostra vita) le sue qualità, anche nascoste. Se uno è convinto che ogni essere umano è "A SUA IMMAGINE" può avere delle belle e piacevoli conferme che - tra l' altro - rendono più praticabili le difficili relazioni umane di questo periodo "apocalittico", in tanti sensi...

    RispondiElimina

L'ALBA DEL NUOVO MONDO

L’alba del nuovo mondo”, il titolo del libro che ha presentato l’autore Gabriele Sannino è molto coraggioso. Nella sala Conferenze di Vill...